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MI TOCCO LA TEMPIA
Mi tocco la tempia e sento qualcosa di viscido, appiccicoso e caldo: sangue, il mio. Ho troppo male alla testa per capire cosa sta succedendo intorno a me. Mi accorgo di essere accasciato per terra. Sotto di me: asfalto umido, gomme masticate, mozziconi di sigarette e cacche di cane, una distesa di cacche di cane. Maledetti milanesi! Ancora non hanno capito che la pupù delle loro amate palle di pelo la devono raccogliere!
Guardo l’ora sul mio orologio digitale trovato nel fustino del Dash: sono le undici e mezza. In queste condizioni non ce la farò mai a prendere l’ultima metro. Le metropolitane mi ricordano dei bruchi. Bruchi che brulicano nei sotterranei della città. Bruchi che strisciano al buio delle gallerie con i loro occhietti luminosi. Non riuscirò mai a prendere quell’enorme bruco motorizzato.
Tasto la patta dei pantaloni: la pistola c’è ancora. Se sto disteso a pancia in giù forse nessuno la vedrà.
Uno con degli scarponi da bovaro mi sta frugando nella giacca. Si prende il portafoglio. Prendilo pure! Ci troverai solo del marocchino di pessima qualità. Fumatelo, non fare complimenti!
A poco a poco gli occhi mi si chiudono. Perdo conoscenza, di nuovo.
Un calcio al basso ventre mi sveglia all’improvviso. “Chiama un’ambulanza, va’! Sempre ‘sti fattoni…”. No, l’ambulanza no! Mi devo alzare. Devo andare via di qui. Faccio leva sulla punta dei piedi. Con un lembo della giacca nascondo la pistola. Puzzo terribilmente. Penso che nessuno mi si avvicinerà. Nessuno tenterà di fermarmi. Ma mi sbaglio. Un vecchio con un cagnolino al guinzaglio mi trattiene per un braccio: “aspetti, adesso arriva l’ambulanza!”.
Provo simpatia per quest’uomo che si preoccupa tanto di me. Non mi va di scansarlo via. Ho paura che perda l’equilibrio. Mi sembra così fragile. Senza rispondergli, azzardo un passo. Le gambe mi cedono. Le ginocchia si schiantano al suolo su un’enorme cacca fresca di cane. Con un sorriso penso che almeno sono caduto sul morbido. La testa mi gira. Sento che mi sta calando la pressione. Il vecchio è ancora accanto a me. “Si appoggi alla mia spalla”.
Mi sento un idiota a farmi aiutare da qualcuno che dovrei essere io ad aiutare. “Coraggio! La aiuto io!”. Una delle milioni di bionde, rigorosamente dell’est, in cerca di fortuna come modelle a Milano mi urta, dandomi un calcio sulla guancia. Mi guarda con stizza, schifo e occhi azzurri, gelidi. Ma chi si fila un manichino come te!
“Forza! Vuole andare a casa? L’accompagno io, giovanotto”. Il vecchio mi solleva di peso con le sue braccia rachitiche. Mi domando se si sia accorto che sto sanguinando alla testa e ho una pistola. Lentamente mi fa camminare. Non ce la faccio a parlare. Ho paura che veda la mia ferita, che si spaventi e mi lasci, qui, da solo.
“Qui tanto tempo fa’ è scoppiata una bomba! Ha fatto tanti morti!”. Una bomba?
Intravedo le guglie del Duomo. A Milano conosco solo il Duomo. Guardo l’orologio: cinque minuti alla mezzanotte. Ce la posso fare a prendere la metro! Accelero il passo. Sento la tempia che mi pulsa e questo mi impedisce di avere i riflessi pronti. Vado a sbattere contro un cestino delle immondizie. “Piano, ragazzo, piano!”.
Forse è meglio che mi liberi di questo vecchio. Arranco verso l’entrata di una metro. “Aspetti!”. Mi mancano pochi passi. In quel momento un uomo mi sbarra la strada con un cancello. Mi aggrappo all’inferriata. Ma che razza di città è questa dove la metropolitana chiude a mezzanotte e mezza! Il vecchio è dietro di me. “Su, su, giovanotto, le offro una tazza di the a casa mia. A proposito qual è il suo nome? Io mi chiamo Umberto, piacere!”.
Violina
MI TOCCO LA TEMPIA
Mi tocco la tempia e sento qualcosa di viscido, appiccicoso e caldo: sangue, il mio. Ho troppo male alla testa per capire cosa sta succedendo intorno a me. Mi accorgo di essere accasciato per terra. Sotto di me: asfalto umido, gomme masticate, mozziconi di sigarette e cacche di cane, una distesa di cacche di cane. Maledetti milanesi! Ancora non hanno capito che la pupù delle loro amate palle di pelo la devono raccogliere!
Guardo l’ora sul mio orologio digitale trovato nel fustino del Dash: sono le undici e mezza. In queste condizioni non ce la farò mai a prendere l’ultima metro. Le metropolitane mi ricordano dei bruchi. Bruchi che brulicano nei sotterranei della città. Bruchi che strisciano al buio delle gallerie con i loro occhietti luminosi. Non riuscirò mai a prendere quell’enorme bruco motorizzato.
Tasto la patta dei pantaloni: la pistola c’è ancora. Se sto disteso a pancia in giù forse nessuno la vedrà.
Uno con degli scarponi da bovaro mi sta frugando nella giacca. Si prende il portafoglio. Prendilo pure! Ci troverai solo del marocchino di pessima qualità. Fumatelo, non fare complimenti!
A poco a poco gli occhi mi si chiudono. Perdo conoscenza, di nuovo.
Un calcio al basso ventre mi sveglia all’improvviso. “Chiama un’ambulanza, va’! Sempre ‘sti fattoni…”. No, l’ambulanza no! Mi devo alzare. Devo andare via di qui. Faccio leva sulla punta dei piedi. Con un lembo della giacca nascondo la pistola. Puzzo terribilmente. Penso che nessuno mi si avvicinerà. Nessuno tenterà di fermarmi. Ma mi sbaglio. Un vecchio con un cagnolino al guinzaglio mi trattiene per un braccio: “aspetti, adesso arriva l’ambulanza!”.
Provo simpatia per quest’uomo che si preoccupa tanto di me. Non mi va di scansarlo via. Ho paura che perda l’equilibrio. Mi sembra così fragile. Senza rispondergli, azzardo un passo. Le gambe mi cedono. Le ginocchia si schiantano al suolo su un’enorme cacca fresca di cane. Con un sorriso penso che almeno sono caduto sul morbido. La testa mi gira. Sento che mi sta calando la pressione. Il vecchio è ancora accanto a me. “Si appoggi alla mia spalla”.
Mi sento un idiota a farmi aiutare da qualcuno che dovrei essere io ad aiutare. “Coraggio! La aiuto io!”. Una delle milioni di bionde, rigorosamente dell’est, in cerca di fortuna come modelle a Milano mi urta, dandomi un calcio sulla guancia. Mi guarda con stizza, schifo e occhi azzurri, gelidi. Ma chi si fila un manichino come te!
“Forza! Vuole andare a casa? L’accompagno io, giovanotto”. Il vecchio mi solleva di peso con le sue braccia rachitiche. Mi domando se si sia accorto che sto sanguinando alla testa e ho una pistola. Lentamente mi fa camminare. Non ce la faccio a parlare. Ho paura che veda la mia ferita, che si spaventi e mi lasci, qui, da solo.
“Qui tanto tempo fa’ è scoppiata una bomba! Ha fatto tanti morti!”. Una bomba?
Intravedo le guglie del Duomo. A Milano conosco solo il Duomo. Guardo l’orologio: cinque minuti alla mezzanotte. Ce la posso fare a prendere la metro! Accelero il passo. Sento la tempia che mi pulsa e questo mi impedisce di avere i riflessi pronti. Vado a sbattere contro un cestino delle immondizie. “Piano, ragazzo, piano!”.
Forse è meglio che mi liberi di questo vecchio. Arranco verso l’entrata di una metro. “Aspetti!”. Mi mancano pochi passi. In quel momento un uomo mi sbarra la strada con un cancello. Mi aggrappo all’inferriata. Ma che razza di città è questa dove la metropolitana chiude a mezzanotte e mezza! Il vecchio è dietro di me. “Su, su, giovanotto, le offro una tazza di the a casa mia. A proposito qual è il suo nome? Io mi chiamo Umberto, piacere!”.
Violina
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