tatapazz

oggi mi cimento in rete... bè del resto che vuoi fare al lavoro quando tutti se ne sono andati?

13 giugno 2006

IO RICORDO

Sono ancora io! Ebbene si, ho problemi di grafomania e anche un po' di logorrea! Pubblico qui di seguito un mio racconto. L'ho anche pubblicato su un sito ma in pochi hanno apprezzato. Quelli del sito preferiscono le storie edificanti con una stolida morale che t'insegna qualcosa sulla vita! Il mio non è niente di tutto questo: buon divertimento e buona lettura!

Violina


IO RICORDO

La ragazza guidava piano la sua automobile lungo la strada. La neve, appena caduta, ricopriva ogni cosa, rendeva i rumori ovattati e costringeva gli abitanti di Short Island a ritirarsi al caldo delle loro case.
Bam! Josephine tirò un pugno sul cruscotto.
“Merda! Non funziona questa merda di riscaldamento!” imprecò, girandosi verso il finestrino della sua auto, come se ci fosse qualcuno, là fuori, che potesse udirla. Quella sera la Talbot stava dando qualche problema: il motore borbottò, mentre le ruote slittavano sulla coltre di neve depositatasi sull’asfalto.
Infilata la macchina tra due alberi, Josephine si incamminò per un viottolo che costeggiava il retro di un teatro, ormai abbandonato: in fondo alla strada si intravedeva una fioca luce, provenire da una finestra sbarrata. La ragazza si avvicinò ad uno stanzino a destra dell’entrata dell’edificio.
“Happy, Happy! Ci sei, Happy?” urlò.
Una testa di capelli ricci e neri sbucò da dietro lo schermo di un computer. Il ragazzo aprì una finestrella. Josephine lo guardò da sotto in sù: Happy aveva occhi blu, pelle bianca, labbra sottili, dentatura irregolare, frutto di anni di inutile apparecchio per i denti. Ed era magro.
“Sei bellissimo” pensò la ragazza “bellissimo come una star del cinema di altri tempi”.
“Che c’è? Che vuoi?”.
“Ti devo parlare, Happy, esci!”.
“Senti Joey, cercherò di essere il più gentile possibile con te: non mi rompere le palle, va bene! Sto lavorando”.
Josephine rise.
“E secondo te, stare qua dentro a leggere storie di cappa e di spada è lavorare?”.
“È un lavoro di responsabilità, tu non puoi capire. Tu sei una disoccupata, che ne vuoi sapere!”.
“Piantala, Happy, e esci fuori da quel buco puzzolente”.
“Che cazzo vuoi?”.
“Vieni fuori”.
“Fuori?!? Fuori si gela che mi si ghiaccia l’uccello!”.
“Quanto sei gentile, Happy! Vieni fuori e non fare storie!”.
Happy e Josephine si conoscevano da molti anni ma entrambi non ricordavano da quando.
“Una sigaretta?” chiese il ragazzo.
“Che roba è?”.
“È merda! La vuoi si o no?”.
“La roba che fumi tu fa sempre schifo” sentenziò la ragazza.
“Questa è buona, fidati”.
“Fumiamo fuori, però!”.
“Fuori? Fumiamo dentro cazzo!”.
“Non possiamo, è proibito”.
“Che palle! Aspettami qui, prendo la giacca” sbuffò Happy.
Il ragazzo sparì dietro un porticina. Josephine prese a gironzolare nell’atrio dell’edificio.
“Ehi, ma puoi mollare così il turno?”.
Happy ricomparve con addosso una pesante giacca di pelle.
“Non viene mai nessuno a controllare. E poi con questa neve gli sbirri non si muovono”.
“C’è gente in sala?” domandò Josphine.
“Ovvio, qui è sempre pieno di coglioni”.
“Perché dici questo?”.
“Perché quelli che studiano qui sono tutti dei coglioni! Non vedi che facce hanno? Dovrebbero leggersi una storia di cappa e di spada”.
“Ma c’è qualcosa che apprezzi in questo mondo, Happy?”.
“Si: me stesso e le storie”.


Uscirono frettolosamente dall’edificio e vennero inghiottiti dal buio, dal freddo e dalla neve. Happy tirò su il bavero della giacca. Camminava dinoccolato e ogni tanto con la coda dell’occhio osservava Josephine: stava cercando di capire che cosa passava per la testa di questa ragazza che conosceva da chissà quanto tempo. La luce che emanava il bianco della neve faceva sembrare ancora più pallida Josephine. Lei si infilò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio e guardò Happy.
“Ha gli occhi neri, non ci avevo mai fatto caso” riflettè Happy “sembra vecchia! Non mi ricordo nemmeno quanti anni ha…”
“Che hai, amico?” fece Josephine.
“Niente, mi sono accorto che hai gli occhi scuri”.
“Wow, Happy, sono anni che ci conosciamo e te ne accorgi solo adesso?”.
“La memoria alle volte mi tira brutti scherzi. Dove stiamo andando, Joey?”.
“Andiamo sul Monte di Biff!” gridò lei entusiasta.
“Sul Monte di Biff!?! Ma vaffanculo, Joey! Non ci vengo in quel posto, porta iella!”.
“Credi a tutte quelle stronzate che si dicono in città?”.
“Willy è morto l’anno scorso ed è morto proprio sul Monte di Biff!”.
“Willy è morto perché si leggeva troppe storie di cappa e di spada, come te!”.
“Te le leggi anche tu”
“Sempre meno di te, Happy, e tu ci rimarrai sotto”.
“Ok, mi hai convinto. Andiamo su questo cazzo di monte!”.
Raggiunsero la macchina e fece capolino uno spicchio di luna. Josephine alzò il naso al cielo e sorrise.
Happy sprofondò con tutto il suo esile corpo nel sedile della Talbot e soffiò fuori una nuvoletta di alito.
“Il riscaldamento non funziona” disse la ragazza.
“Quando mai in questa macchina di merda funziona qualcosa”.
“Ehi, ma che hai stasera?”.
“Niente, è solo la neve…”.
Josephine uscì dal parcheggio. Quella sera a Short Island nessun lampione aveva intenzione di funzionare. Le strade erano buie, le case erano buie, i locali erano bui. La Talbot passò accanto ad un vecchio albergo in disuso.
“Non ti fanno paura gli alberghi abbandonati?” chiese lei.
“Cazzo dici?”.
“Si, insomma a me piace pensare che in quei muri siano rimaste intrappolate le voci, le vite, le storie di quelli che vi hanno alloggiato. E quando l’albergo rimane vuoto, queste si liberano e vagano in ogni stanza come dei fantasmi”.
“Quanti anni hai, Joey? Dieci?”.
“Si chiama fantasia, Happy, sai cos’è la fantasia?”.
“Metti un po’ di musica, Joey, che questi discorsi da intellettuali mi fanno venire il mal di testa!”.
Si guardarono e scoppiarono a ridere. Poi la Talbot imboccò una strada in salita: Josephine e Happy si stavano avviando sulla cima del Monte di Biff. Il viaggio era lungo e fuori la temperatura minacciava di abbassarsi ancora.



La strada costeggiava una fitta boscaglia di abeti, dai rami dei quali cadeva della neve fresca. Josepine immaginò che dentro quel bosco animali magici si svegliassero per ammirare lo spettacolo dell’inverno. Mentre guidava le sembrò di veder brillare un paio di occhietti nel buio della strada.
“Un animale!” urlò.
Happy si destò dall’intorpidimento nel quale era sprofondato già da un pezzo.
“Ma sei scema?”.
“Ho visto un animale!”.
“È impossibile, Joey! Non ci sono animali sul Monte di Biff. Sono tutti morti, estinti o qualcosa del genere”.
“Ma ti dico che l’ho visto! Poteva essere un gatto, un cane o un animale magico dei boschi…”.
“Joey, decisamente hai dieci anni! Guida che è meglio!”.
Happy si girò verso il finestrino e tornò a sonnecchiare. Mentre chiudeva lentamente gli occhi, si ricordò di come si erano conosciuti lui e Joesphine. Successe al mare, in vacanza. Si ricordò che faceva caldo. Forse si erano anche amati, ma di quello che era stato il loro amore aveva dimenticato tutto. In viaggio su una vecchia Talbot, verso la cima di un monte, seduto accanto ad una ragazza che forse un tempo aveva amato, Happy riusciva a ricordare solamente che faceva caldo e un murales. Un orrendo murales su un muro chissà dove.
La Talbot penetrò le anguste vie dell’unico paese del Monte di Biff, ormai disabitato. Josephine rallentò per assaporare meglio il brivido che quella città fantasma le trasmetteva.
“Gira di là” le consigliò Happy
“C’è parcheggio?”.
“No, c’è la vista panoramica di Short Island. È un buon posto per fumarsi sigarette e anche per leggersi storie di cappa e di spada”.
“Guarda che qua non c’è nessuno, tanto meno sbirri: non occorre che ci nascondiamo!”.
“Non fa alcuna differenza. Non voglio stare in questo paese di merda: mi mette l’angoscia”.
“A me un po’ piace”.
“Tu sei strana”.
Di fronte a loro si apriva una radura: qualche albero, una staccionata marcita e niente altro. Josephine ingranò la prima e la Talbot sprofondò nella neve.
“Brava! E poi come torniamo indietro?”.
“Non c’è problema: questa è una 4X4”.
“Ah, allora siamo in una botte di ferro!”.
Happy, sorridendo, diede una piccola spinta a Josephine. Poi aprì lo sportello e si ritrovò con la neve alle ginocchia.
“Cazzo! Perché ti ho dato retta? Perché ti do sempre retta? Joey, guarda qua: i miei jeans!”.
“Ma dai, Happy, che ormai quei jeans cadono a pezzi!”.
“Porco mondo che freddo! Potrei pisciare cubetti di ghiaccio!”.
“Checca!” gridò la ragazza con fare canzonatorio.
“Cosa?!? A chi checca?!? A me?!?”.
Josephine scoppiò a ridere.
“Si Happy, sei una checca lamentosa!”.
“Adesso ti faccio vedere cosa è capace di fare una checca lamentosa e poi vediamo se la pensi ancora così!”.
Happy prese Josephine per le spalle, la spinse a terra e le si gettò sopra. Lei rideva a crepapelle. Le loro labbra si sfiorarono. A Happy sembrò che qualcosa di simile fosse già accaduto.
“Dai, Happy, mi va la neve sotto il cappotto! E poi Biff potrebbe vederci!”.
“Chissene frega di Biff! Chi cazzo è Biff? Un tuo ex?”.
“Quello che ha dato il nome al monte”.
“Che cazzo dici, il Monte di Biff si chiama così perché uno stronzo gli dato il suo nome?”.
“Certo che ti sei proprio bevuto il cervello con le storie di cappa e di spada, Happy, perché credi che il Monte di Biff si chiami così?”.
“Chi cazzo è? È qui? Ci sta spiando?”.
“Era un tale che viveva nel paese, non parlava con nessuno. Era una specie di eremita. Poi un giorno è sparito e nessuno sa che fine ha fatto”.
“Lo vedi che questo posto porta iella? Andiamocene!”.
“Aspetta Happy! C’è un motivo se siamo quassù”.
“Cazzo, Joey, lo sapevo che mi nascondevi qualcosa. Spara: che cosa devi dirmi!”.
“Ho scoperta una cosa”.
“Cosa?”.
“Una nuova storia di cappa di spada”.
“Dove? Perché non me l’hai detto prima?”.
“Aldilà del Monte di Biff, dopo il confine”.
“Aldilà del Monte di Biff?!? Scordatelo! Non mi piace quel posto. E poi nessuno è mai andato dopo il confine e non sarò certo io il primo a farlo”.
“Ma è una storia nuova, diversa”.
“E allora? Io continuo a leggermi quelle che ci sono qui. E poi tu come fai a saperlo?”.
“Me l’ha detto Linda, la sbirra”.
“Linda è una sciroccata che si è sfottuta il cervello! Non capisco come gli sbirri l’abbiano potuta assumere!”.
“Gliel’ha confessato uno straniero che è arrivato a Short Island ieri notte”.
“E che fine ha fatto ‘sto straniero?”.
“L’hanno messo dentro”.
“Cazzo, l’hanno già messo dentro! Stanno diventando sempre più veloci gli sbirri, eh?”.
“Linda gli ha fatto il test”.
“Uh, che ficata il test degli sbirri! Quando l’hanno fatto a me è stata la cosa più bella che mi sia capitata nella vita!”.
Happy si rialzò e si ripulì dalla neve. Il suo viso si era rabbuiato: questa novità non gli piaceva proprio. Josephine si sedette ad osservarlo. Poi si lasciò cadere all’indietro con tutto il peso del corpo, sospirando.
“Tu non hai voglia di sapere cosa c’è aldilà del confine?” domandò sconsolata.
“Si capisce che ho voglia, ma…”.
“Ma cosa?”.
“Non posso mollare tutto”.
“Tutto cosa, Happy? Non abbiamo niente qui! Niente!”.
“Mi stai chiedendo una cosa difficile, Josephine! Lo sai che non mi piacciono le avventure! Nessuno ha mai passato il confine. Nessuno sa cosa ci sia dopo. Potrebbe esserci qualsiasi cosa. Io e te non siamo abbastanza intelligenti per poterlo fare!”.
“Perché ci siamo letti troppe storie di cappa e di spada?”.
“Lo sai perché, Joey? Se non ci facciamo più vedere giù allo studio ci vengono subito a cercare!”.
“Mi stai dicendo che non abbiamo nessuno possibilità?”.
“Non siamo fatti per questo, lo sai…”.
Happy iniziò a fumare la sigaretta che desiderava da quando era uscito dalla sala. Josephine piagnucolò: quel pezzetto di luna che aveva intravisto tra le nuvole non intendeva mantenere quello che aveva promesso, quella sera. Era quasi arrivata al confine ed era in compagnia del ragazzo che forse aveva amato molto tempo fa’. Lui taceva e le passò la sigaretta. Lei fece un lungo tiro, come se quella sigaretta potesse consolarla di quella delusione.
“Sei un pigro!” esclamò lei.
Happy sorrise lentamente. Josephine aveva ragione: lui era un pigro! Si sedette sulla staccionata marcita. Il murales. Ora Happy si ricordava che quel murales non voleva farlo. Aveva paura allora, come oggi. E Josephine dov’era? Forse accanto a lui, come stasera.
“E va bene, andiamo!”.
Josephine si rizzò a sedere: era zuppa di neve.
“Cosa? Dici sul serio?”.
“No, dico: andiamo!”.
“Non ci credo, mi stai prendendo per il culo!”.
“Se continui, cambio idea”.
Lei si lanciò ad abbracciarlo.
“Grazie, checca lamentosa!”.
Happy le tirò un piccolo pugno sulla spalla.
“Stronza!”.
“Pigro!”.
“Prima però dobbiamo fare una cosa”.
Cosa?”.
“Leggerci una storia di cappa e di spada”.
“Non se ne parla proprio, Happy! Ci siamo appena fumati una sigaretta!”.
“Vuoi andare aldilà del confine e hai paura a leggerti una storia di cappa e di spada dopo una sigaretta? Non è da te, Joey?”.
“Non voglio fare la fine di Early il ciccione: ora ha il cervello completamente alienato!”.
“Ma Early il ciccione era scemo già prima! E poi se vuoi che venga con te, devi leggerti una storia…”.
“Quanto sei fissato, Happy! Ce l’hai il leggìo?”.
“E ti pare che giro senza? L’ho lasciato sul sedile posteriore della Talbot”.
Josephine si staccò da lui e cercò di farsi strada in mezzo alla neve alta.
“Ehi, Joey! Ma il confine è lontano da qua?”.
“E come faccio a saperlo, non ci sono mai andata”.
“Pensavo che forse dovrei tornare a casa, farmi una doccia, preparare la valigia, prendere qualcosa da mangiare…”.
“A che ti serve, Happy? Non sappiamo neanche quello che troveremo”.
“Cazzo, Joey, è il mio primo viaggio! Mi devo preparare psicologicamente!”.
“Siamo troppo lontani da casa tua, Happy. Tornare in città sarebbe solo una perdita di tempo”.

Happy sistemò il leggio alla meglio su un mucchietto di neve, mentre Josephine apriva la storia di cappa e di spada. Iniziarono a leggere: il gioco era fatto!. Furono travolti, insieme, da una sensazione di benessere: la neve parve sciogliersi e un torpore primaverile li colse. Josephine sentì che tutto sarebbe stato più bello, migliore. Happy si lasciò cullare da quel momento, mentre nella sua mente affluivano lontani ricordi, ingarbugliati fra di loro.


“Cazzo! Ci siamo addormentati!” esclamò Josephine e dette un calcio ad Happy.
“Hm, aspetta ancora un attimo…era così bello!”.
“Happy! Tirati su, dobbiamo andare!”.
Happy si sollevò lentamente, mentre con la mano cercava di togliersi grumi di neve ghiacciata dai riccioli neri.
“Che botta! Questa storia è stata veramente una ficata…”.
“Sbrigati!” lo rimbrottò Josephine.
“Ehi, lungo la strada voglio fermarmi alla Locanda dello Sbirro Morto”.
“Locanda che? Che posto è?”.
“Uno sballo di posto, dove si può fumare in libertà”.
“Come fai a sapere dell’esistenza di questo posto?”.
“Quando sono arrivato a Short Island venivo dal confine”.
Josephine lo guardò con occhi sgranati: stava per tirargli un pugno, ma si fermò.
“Brutto stronzo! Allora tu sai cosa c’è aldilà del confine?”.
“Non mi ricordo nulla a parte questo e qualche altra cosa di poca importanza. Credo che il test degli sbirri annulli i ricordi…”.
Josephine sospirò.
“È per quello che voglio andare aldilà del confine! Voglio ricordarmi chi sono, chi siamo io e te e se forse ci siamo amati…”.
Happy la prese per mano.
“Però ci fermiamo alla Locanda dello Sbirro Morto, ok?”.


Happy scese dalla Talbot e appoggiò entrambe le mani sulla parte posteriore della macchina.
“Sei una cretina! Lo sapevo che saremo sprofondati in questo schifo di neve! È una 4X4, vero?”.
“Che palle, Happy! Guida tu che ci provo io!”.
“Ok, miss, vediamo se sai fare di meglio”.
Josephine spinse con tutte le sue forze mentre Happy rischiava di fondere il motore. La Talbot continuava a slittare, emanando un acre odore di uova marce.
“Dai che ce la stiamo per fare” gridò lui.
Josephine fece leva sulle gambe e mise quanta forza poteva nelle braccia: la Talbot uscì dalla neve alta e scivolò lungo la strada asfaltata. Happy mise la seconda.
“Ci vediamo alla Locanda dello Sbirro Mortooooooo!”.
Josephine prese a correre ridendo, aprì la portiera e saltò a bordo della Talbot.
“Allora da che parte si va per il confine?” domandò lui.
“Le indicazioni dicono di andare a destra e poi sempre dritto, c’è una sola strada, la via maestra”.
“La via maestra?” esclamò Happy “ e cosa diavolo è la via maestra?”.
Lei sorrise e si accomodò sul sedile della Talbot. Poi chiuse gli occhi.
Il test degli sbirri aveva cancellato i suoi ricordi. Lei era stata una straniera, come Happy. Il murales e qualche confusa immagine erano tutto ciò che ricordava.
Quella sera Happy aveva paura di essere beccato. Anche a lei non andava giù l’idea di rischiare di essere vista dagli sbirri per uno stupido murales. Gli amici, invece, insistevano. Ma che c’era scritto sul quel murales? Josephine non lo ricordava. Forse una frase d’amore o un insulto contro gli sbirri. Lei e Happy si erano amati. Ma quando e per quanto tempo?

“Prima tappa!” esultò Happy.
“Josephine aprì un occhio e lesse: “Locanda dello Sbirro Mort”.
“Posticino accogliente” sibilò.

Da dietro un boccale di birra da un litro, Early il ciccione alzò un sopracciglio: era il suo saluto.
Poi con tutta la sua mole fisica si trascinò verso il tavolo di Happy e Josephine.
“Non vi ho mai visto qui, che ci fate?”.
Josephine non aveva nessuna voglia di parlare con quel pachiderma e tanto meno voleva che lui venisse a sapere dei suoi piani. Finse di urtare il gomito di Happy e tuffò gli occhi dentro la sua birra.
“Ci facciamo un giro” rispose Happy.
“Da queste pavti? Ma vaffanculo! Non me la vacconti giusta”.
“E cosa vuoi che ci facciamo qui, Early?”.
“È pvopvio quello che ti sto domandando: che cazzo ci fate qui? Così capisci meglio, boccolone?”.
“Fatti un giro, Early, ok?”.
“Siete già stati giù allo studio?”.
“Io conto di andarci domani mattina”.
“E tu, biondina?”.
Josephine fissò Early per qualche secondo.
“Che orrore…” pensò, poi tornò a guardare la sua birra.
“Ehi, biondina, sto pavlando con te? Hai qualche pvoblema?”.
“Fatti un corso di dizione, ciccione!” sbraitò lei e si lanciò verso la porta della toilette.
“Le vuole pvendeve quella?”.
“Fatti i cazzi tuoi, Early” grugnì Happy.

Josephine appoggiò la borsetta sulla mensola dello specchio e aprì il rubinetto.
“Che posto schifoso!” pensò e ficcò le mani sotto l’acqua corrente.
Aprì una tasca della sua borsa ed estrasse una scatolina di seta giapponese: conteneva un paio di minuscoli orecchini d’argento a forma di fiore. Un regalo di Happy per il suo compleanno? Quali dei suoi compleanni?

Early era tornato a sedersi al suo tavolo e stava osservando Josephine con aria truce: ce l’aveva con lei per quella battuta sul corso di dizione. Lei cercò con gli occhi il suo compagno di viaggio.
Happy era fuori dal locale e stava fumando una sigaretta.
“Ehi, Joey, senti qua! Che goduria ‘sta sigaretta…”.
“Cretino! Mi molli in compagnia di Early il ciccione?”.
“È innocuo”.
“Non è innuoco: ha il cervello in pappa! E non voglio che ficchi il naso nei miei affari!”.
“Eh dai, Joey, quanto la fai lunga! Lo vedi in giro, per caso? Ce ne siamo liberati”.
Alle loro spalle sentirono cigolare i battenti della porta in legno del locale: apparve la tonda sagoma di Early il ciccione.
“Dammi una sigavetta!”.
“Early, hai mai sentito parlare dell’educazione e della cortesia?”.
“Con quella erre moscia potrebbe essere un conte!” sentenziò con sarcasmo Josephine.
“Piantala, Joey!” la rimbrottò Happy “ Vuoi una sigaretta, Early? Eccola qua! Ora vattene!”.
“Cosa ci fate qui?”.
“Early, ma che cazzo hai in quel cervello? La merda? Siamo qui per farci un giro!”.
“Non me la dai a beve, boccolone”.
“Siamo qui per prenderti a calci, Early” intervenì Josephine.
Happy le lanciò un’occhiataccia.
“Siamo qui per farci una birra e basta!”.
“Siete qui pev le stovie”.
“Cosa ne sai tu delle storie, eh?” incalzò la ragazza.
“Ne so più di te, biondina!”.
Josephine gli sferrò un destro all’altezza dei polmoni: il pugno sprofondò in quella flaccida, molle e sudaticcia carne.
“Bleah!”.
“Voi state andando aldilà del confine” sghignazzò Early e si trascinò dentro la locanda.
“Early!” gridò Happy “ci vediamo giù allo studio domani mattina, ok?”.
“Cevto, cevto…ci vediamo giù allo studio…domani mattina” continuò, ridendo, Early il ciccione.

“Gliel’hai detto mentre ero in bagno, cretino!”.
“Si certo, sono talmente idiota che gliel’ho detto! Grazie per la fiducia, Joey!”.
“Allora come cazzo fa a sapere dove andiamo?”.
“Sarà un veggente” rise Happy “dai, un’ultima birra e poi andiamo”.

Early il ciccione era scomparso. Un cameriere sottile come uno spillo e con la testa rasata gli servì due fresche birre. Indossava una maglietta che recitava una cosa del tipo “picchia il vip!”.
“Picchia il vip…picchia il very important person” pensò Happy “…originale!”.
Poi guardò il viso del cameriere: aveva delle profonde occhiaie nere.
“Ecco un altro assiduo lettore di storie di cappa e di spada: un drogato!”.
Happy si girò verso Josephine per dirle qualcosa ma la ragazza gli aveva già messo sotto il naso la scatolina di seta giapponese.
“Ricordi?” domandò lei.
Lui aprì la scatolina e guardò a lungo gli orecchini.
“Credo sia un regalo…”.
“Un tuo regalo?”.
“E che ne so, Joey!”.
“Ho come il presentimento che questo regalo sia tuo ma non riesco perché e quando me l’hai dato”.
Happy pensò che se quel regalo era suo, allora aveva buon gusto in fatto di gioielli.
“Non ricordo…forse un tuo compleanno…”.
“Quale dei mie compleanni?” gridò la ragazza disperata “sto cercando di ricordare quanti avevo…ma è come se avessi dimenticato tutto…tutto…e tu non mi stai dando una mano”.
“Joey, non te la puoi prendere con me se non ricordo” sentenziò Happy “adesso vado al cesso, se permetti!”.


Early il ciccione era accasciato a terra, sotto i lavandini. Happy non sapeva neanche se fosse vivo o morto.
“Che schifo, cazzo! Spero di non ridurmi così!”.
Lo scavalcò e si chiuse in bagno.
Orecchini d’argento…scatolina di seta…compleanno…compleanno….scatolina…orecchini….orecchini….compleanno….scatolina….orecchini…compleanno…murales. Murales? Murales…compleanno…orecchini….compleanno …orecchini…scatolina…murales…Murales!

Happy uscì e si ritrovò muso contro muso con Early il ciccione: il suo volto era viola, gli occhi erano ridotti a due sottili fessure.
“Tu stai andando aldilà del confine…”.
“Early, dico, che ti prende? Mi hai messo paura!”.
“Non potete andave aldilà del confine…”.
“Fanculo, ciccione, togliti!”.
Happy gli diede una spinta con tutta la forza che aveva e sgattaiolò verso l’uscita.
“Non c’è niente aldilà del confine! Tanto meno i vostvi vicovdi! Non potete vicovdave niente! Nessuno di noi può vicovdave!” gli urlò Early il ciccione.

Happy corse in direzione di Joesphine e la prese sotto un braccio.
“Andiamocene! Adesso!”.
La ragazza tossì tirando uno sputo sul bancone.
“Sei scemo? Mi è andata la birra di traverso!”.
“Andiamocene, ti ho detto! Early il ciccione mi sta perseguitando con delle stronzate!”.
Happy spinse Josephine fuori dalla Locanda dello Sbirro Morto e la trascinò a passo spedito verso la Talbot. Si mise al volante, accese il motore e via! Si girò verso l’entrata della Locanda e vide Early il ciccione: era immobile e rideva. Happy gridò e schiacciò violentemente il pedale dell’acceleratore.
“Che ti pvende, boccolone?” ridacchiò Josephine.
“Non chiamarmi più boccolone!”.
“Perché? Non ti piace il soprannome che ti ha affibiato quel ritardato di Early?”.
“Guai a te se nomini ancora Early!”.
“Ma che ti prende, Happy? Ti sei messo a gridare come un scemo prima che mi hai messo paura….”.
“Early il ciccione mi mette l’angoscia…”.
“Per fortuna che dicevi che era innocuo!”.
“Fa’ la finita, Joey! Forse ricordo qualcosa di quegli orecchini”.
“Cosa?”.
“Forse te li ho dati la sera del murales”.
“Ricordo poco di quella sera…”.
“Anch’io…”.
“Quanti anni avevamo?”.
“Non lo so, Joey, non lo so…”.
La luna ora si fece vedere in tutta la sua rotondità. Josephine la osservò.
“È gialla…come la sera del murales…” pensò.
Il viaggio era ancora lungo. Happy accese la radio. Passavano una canzone di qualche tempo fa’.
“Josephine I send you all my love, Josephine I…”.
Happy canticchiò “Josephine I send you all my love…” e rise.
“Sono romantico o no?”.
La ragazza si accoccolò al suo fianco e appoggiò la testa sulla sua spalla.
“La notte del murales, la notte in cui mi hai dato gli orecchini c’era la luna…gialla…”.
“Come stanotte…è un segno”.
“Un segno di che?”.
“Un segno che prima o poi torneremo a ricordare quella sera e tutto il resto…”.

Dopo la Locanda allo Sbirro Morto la strada andava in discesa. Aldilà della cima del Monte di Biff la boscaglia era più fitta e dove non c’erano alberi si aprivano delle radure: lì si innalzavano, in tutto il loro squallore, alberghi lussuosi ora abbandonati. Josephine si fece prendere, nuovamente, dal brivido di quelle presenze di cemento, piene di polvere e mistero.
“Ancora hotel…” sospirò Happy.
“Una volta questa era una rinomata zona di villeggiatura per ricchi vip”.
“Vip? Very Important Person! Il cameriere della Locanda dello Sbirro Morto non deve trovarli molto simpatici, questi vip”.
“Già…” sbuffò Josephine.
“Vip…Very Importan Person. Dov’è che Happy aveva già visto questa parola. Forse fuori da qualche locale per…per Vip! Only Vip!


Mentre gli amici stavano disegnando il murales, lui e Josephine erano andati a fare una passeggiata sul lungo mare. Passarono davanti ad una discoteca molto chic, all’entrata della quale era appeso un cartello fucsia che diceva: “only Vip”. Il biglietto era troppo caro. Così proseguirono e poco più avanti trovarono un altro locale al quale si accedeva tramite una scala a chiocciola. Da fuori si udiva una vecchia canzone: “Josephine I send you all my love…”. Un buttafuori li cacciò in malo modo perché erano…Perché erano?

“Merda!” gridò Happy. Sterzò violentemente a sinistra. La Talbot fece due piroette su se stessa e andò a sbattere con la parte posteriore contro il tronco di un albero. I due si guardarono, stravolti.
“Ma volevi farmi fuori, Happy?” disse sorridendo Josephine.
“Un ricordo…”.
“Cosa?”.
“Un ricordo netto, preciso, lungo, nitido…”.
“Hai ricordato?”.
“Si…io e te sul lungo mare, un locale con la scritta ‘only vip’, e poi un altro con la canzone di prima e un buttafuori che non ci fa entrare perché siamo…perché siamo…non ricordo altro….”.
“Perché siamo gente comune! Si, insomma, non siamo vip!”.
“No, non era per questo…era per qualcos’altro…”.
“Com’era il lungomare nei tuoi ricordi?”.
“Bello…dolce…i ricordi sono dolci…”.
“Magari aldilà del confine c’è il mare…”.
“Magari c’è quello che ci siamo dimenticati…hai presente il libro?”.
“Quale libro, Happy?”.
“Quello dove un tizio su un cavallo alato va sulla luna a recuperare il cervello di un suo amico che è impazzito e il cervello è in un barattolo. Furioso e qualcos’altro s’intitolava…”.
“E che centra?”.
“Centra che forse i nostri ricordi sono dentro un barattolo, aldilà del confine!”.
Josephine scoppiò a ridere.
“E come fanno i nostri ricordi a stare dentro un barattolo?”.
“Ma prima non mi parlavi di fantasia? Questa secondo te non è fantasia?”.
“Questa è una gran stronzata! Ecco cos’è!”.
“Quando le stronzate le spari tu allora diventano fantasia, eh?”.
Josephine scoccò un buffetto sulle guance rosa di Happy.
“Vediamo come hai ridotto la mia Talbot!”.
Scesero dall’auto. Happy scivolò e finì con il sedere a terra: la strada era ricoperta da una spessa lastra di ghiaccio.
“Fatto male?” domandò la ragazza.
“Mi sono spaccato il culo! E forse anche la spina dorsale!”.
“Bravo! Ehi, Happy, guarda: la Talbot non ha un graffio! Lo sapevo che avevo fatto un affare!”.
“Oh, ma mi vieni a dare una mano o ti preoccupi solo di questa bagnarola? Non ha freni ‘sta merda di macchina!”.
“Che lagna, Happy! Dammi la mano…”.
Il ragazzo si rizzò a fatica: aveva male alle natiche.
“Cazzo, che dolore atroce! Adesso guidi tu! Non so neanche se riuscirò a stare seduto!” eslamò, accarezzandosi il fondoschiena.
Josephine guardò il sedere di Happy.
“È magro…è senza culo!” pensò.
“Happy!”.
“Che hai, Joey?”.
“Qualcuno mi disse che eri senza culo”.
“Che vuol dire che sono senza culo?”.
“Vuol dire che sei piatto! Si, insomma, che non hai la curva del culo!”.
“Chi ti ha detto una stronzata simile?”.
“Forse qualcuno dei nostri amici…qualcuno che era con noi la notte del murales…”.
“Un ricordo?”.
“Credo di si…”.
“Non è il massimo come ricordo!”.
“Ti sei offeso, eh?”.
“Tu ricordi solo stronzate…”.
“Potrebbero essere stronzate utili!”.
“A cosa?”.
“Non so…a ricordare chi erano i nostri amici…tu ricordi chi erano i nostri amici?”.
“No. Per quel che mi riguarda, la mia unica amica sei sempre stata tu”.
“Che onore!”.
“Non montarti troppo la testa, stronzetta!” Happy le fece la linguaccia.
Josephine lo guardò e si accorse che stava diventando improvvisamente più pallido del solito e che sudava.
“Sudi con questo freddo, Happy?”.
“Soffro di bassa pressione…”.
“Questa si che è bella! Dai monta in macchina che guido io!”.
“No, aspetta un minuto…”
Happy si accasciò a terra e appoggiò la schiena alla ruota anteriore della Talbot; Josephine gli si sedette accanto.
“Che hai, Happy?”.
“Tu sei Moby Dick…” rantolò lui.
“Cosa?”.
“Tu sei una balena…sei come Moby Dick…”.
“Ma che cazzo stai dicendo, Happy?”.
“Sei una balena, arenata sulla spiaggia e stai aspettando che io venga a prenderti….”.
“Ma stai parlando con me? Ma chi è Moby Dick?”.
“Ho lanciato un sasso nello stagno e tu sei venuta a galla…grande…con tutta la tua mole di…come Moby Dick…”.
Happy lasciò cadere la testa sulla spalla destra e chiuse gli occhi. Josephine non sapeva se avere paura.

Josephine e Happy erano soliti incontrarsi in una piazzetta dove i turisti si accalcavano davanti alle cabine telefoniche. Qualcuno dei loro amici voleva fare un falò sulla spiaggia, mentre altri si cimentavano con spray e bombolette per eseguire un murales sul muro del molo, non poco lontano dalla caserma degli sbirri. Happy e Josephine si erano allontanati per andare a distendersi sulle barche e avere un po’ di intimità. Lei indossava una lunga gonna di seta blu, camiciola bianca e scarpe di pezza con le stringhe. La gonna aveva dei bottoni che Happy cercava furbescamente di slacciare. Josephine scacciava la sua mano. Quella sera lui le aveva detto che l’amava. Che l’amava alla follia…

“Ho lanciato un sasso nello stagno e tu sei venuta a galla…grande…con tutta la tua mole di…di ricordi…”.
“Oh, Happy! Stai bene?”.
Happy sollevò la testa: Josephine stava scuotendo il suo braccio e gridava il suo nome. La guardò e dietro le lenti degli occhiali riconobbe lo stesso sguardo che aveva quella sera.
“Noi e i nostri amici ci davamo sempre appuntamento in una piazzetta, dove c’erano delle cabine telefoniche”.
“Happy mi stai facendo veramente paura! Ti sei letto troppe storie di cappa e di spada. Prima mi tiri fuori una balena, poi una cosa del tipo Moby Dick e adesso ‘sta storia delle cabine telefoniche! Hai ricordato ancora? Che succede?”.
“Quella sera gli altri volevano fare un murales sul muretto del molo…”.
Happy la guardò di nuovo: non sapeva se dirle che si era ricordato che quella sera le aveva dichiarato il suo amore.
“Ma chi cazzo è Moby Dick?”.
“Una balena bianca, una chimera…”.
“Eh? Una balena bianca? Una chimera? Che significa?”.
“Lascia perdere, Joey! Mettiti al volante che io ho male al culo!”.
“Più ci avviciniamo al confine più tu ricordi, io non riesco a ricordare niente…” mugolò lei.
“Ci fumiamo una sigaretta?”.
“Qui?”.
“Vedi qualcuno che possa darci noie se ci fumiamo una sigaretta? È deserto!”.
Happy accese una sigaretta e la passò a Josephine.
“Inizia tu, Joey…”.
La ragazza aspirò a lungo e buttò fuori una nuvoletta di fumo formando dei cerchi, poi dei quadrati, poi dei rombi…
“Ma come ci riesci?”.
“Ci riesco e basta”.
“Sei magica!”.
“Già, così magica che non ricordo nulla…”.
“Ricorderai anche tu, Joey, devi solo avere pazienza”.
“Ma chi è Moby Dick, Happy?”.
“La balena bianca che il ragazzino di un cartone animato si portava in tasca”.
Josephine strizzò gli occhi come per vederci meglio e li soffiò in faccia una nuvola di fumo a forma di trapezio.
“Lo sai che ricordo come eri vestita quella sera…avevi una gonna blu con dei bottoni strategici….”.
La ragazza rise di gusto.
“Sono le storie…”.
“Che?”.
“Sono le storie di cappa e di spada che ti aiutano a ricordare”.
“E tu come fai a saperlo?”.
“L’ho capito: è questo quello che studiano quelli dello studio…”.
“Studiano cosa?”.
“Studiano il potere del ricordo tramite le storie di cappa e di spada. Prima annullano i tuoi ricordi con il test degli sbirri e poi ci fanno leggere le storie. Le storie evocano il nostro passato tramite immagini decodificate. Siamo delle cavie, Happy! Come Early il ciccione, come Biff del Monte di Biff, come Linda la sciroccata! Siamo solo delle stupide cavie!”.
“Ma che dici? Le storie sono belle…”.
“Le storie sono una droga! Studiano la nostra mente! Tengono sotto controllo i nostri ricordi! Ecco perchè i nostri ricordi sono così confusi! Non capisci, Happy?”.
“E allora tu? Come fai a rendertene conto?”.
“Sono due mesi che non vado giù allo studio”.
“Hai fottuto i cervelloni, eh?”.
“Con tutte le cavie che hanno da studiare non vengono certo a cercare me! Mi do per malata e nessuno è mai venuto a controllare…”.
“Cosa stiamo facendo?”.
“Stiamo andando aldilà del confine a riprenderci quello che è nostro! Da là veniamo e là ci sono il nostro passato, i nostri ricordi, la nostra vita!”.
Happy le prese il viso e la baciò a lungo.
“La notte del murales ti dissi che ti amavo…che ne pensi?”.
Josephine sospirò.
“Credo che io e te ci siamo amati, un tempo…”.


Josephine si mise al volante; Happy, ancora dolorante, cercò di accomodarsi alla meglio sul sedile.
“Che dolore, cazzo! Che dolore atroce! Faccio fatica a stare seduto, non ci riesco proprio…”.
“Vuoi abbassare il sedile e distenderti per stare più comodo?”.
“È una proposta indecente?”.
“Cosa? Che dici?”.
“Hai capito benissimo, Joey…mi dici di abbassare il sedile…è una proposta, no?”.
Josephine sgranò gli occhi.
“Happy, no! Non intendevo questo!”.
“Sicura, eh?” e le tirò una leggera gomitata.
“No!!! Sono sicura e poi mi sta cominciando a venire fame…”.
“Ecco, che ti avevo detto? Dovevamo passare a casa mia a prendere qualcosa da mangiare…”.
“Forse in questi boschi c’è qualcosa …qualche frutto o bacca…”.
“…e noi siamo Adamo ed Eva! Questo non è mica l’Eden!”.
“Prendimi pure in giro, ma io mi guardo intorno quando sono in macchina e ho visto dei frutti o qualcosa di simile, lungo la strada”.
“E brava! Invece che guardare la strada, guardi in giro?!? Non mi fido tanto di te come pilota, Joey! E poi dove sarebbero ‘sti frutti?”.
“Qua!”.
Josephine virò a sinistra e fermò la Talbot vicino ad una radura, al bordo della quale si trovavano degli arbusti bassi e di color verde, dai quali pendevano piccoli frutti rossi.

“Joey, non penserai mica di mangiare quelle…”.
Happy non fece in tempo a terminare la frase che Josephine aveva già addentato un frutto.
“È dolcissimo, senti! È buonissimo, sembra quasi…”.
“Sembra cosa?”.
“Lampone!”.
“Lampone?!? In pieno inverno?!? Dà qua, fammi sentire!”.
Happy si ficcò in bocca una manciata di quelle bacche rosse e masticò con veemenza.
“Hm, gnam è… gnam, è… cazzo è…cazzo è veramente lampone!”.
“Che ti avevo detto!”.
“Ma come diavolo fa a crescere il lampone di inverno?”.
Josephine ed Happy si guardarono. Scoppiarono a ridere e poi si tuffarono in mezzo a quegli arbusti dai deliziosi frutti.
“Adesso non ti fa più male il culo, eh Happy?”.


Josephine, seduta sul cofano della Talbot, si stava avidamente leccando le dita della mano: erano tutte rosse, come la lingua e la bocca.
“Buoni, veramente buoni…”.
Happy era disteso sul sedile anteriore; la portiera era aperta.
“Noi non l’abbiamo mai fatto…”.
“Cosa, Happy?”.
“Ho detto che non l’abbiamo mai fatto!”.
“Fatto cosa?”.
“Sveglia Joey! Non l’abbiamo mai fatto, hai capito, no?”.
“Ah, ho capito…beh se l’abbiamo fatto e non mi ricordo nulla, allora deve essere stato fantastico!” e scoppiò in una fragorosa risata.
“Molto spiritosa…”.
“Scherzi a parte, Happy, non credo che io e te l’abbiamo mai fatto e anche se fosse così, non riesco proprio a ricordarmelo”.
“Magari è stato fantastico…la prima volta…”.
Josephine si girò verso il parabrezza: Happy si stava tenendo la testa con entrambe le mani e la guardava. Aveva uno sguardo strano: non l’aveva mai guardata così o forse si.



“E dai… non vuoi…”.
Josephine scacciò la mano di Happy che si stava infilano sotto la sua gonna di seta blu. Rise.
“Non qui! Non adesso, ci sono gli altri laggiù e ci vedono…”.
“Ma come fanno a vederci? È tutto buio! E poi non senti come ridono? Non si accorgono nemmeno di noi…”.
“Oggi non è possibile…”.
“Ah, già…e allora quando?”.
“Non lo so, e poi dove lo facciamo? A casa mia c’è sempre mio padre…”.
“Ma tu lo vuoi?”.
“Beh…ho un po’ di paura…ma…”.
“Anch’io Josie…siamo insieme…siamo io e te…ma se non te la senti non importa…”.
“Andiamo a fare una passeggiata sul lungo mare?”.
Josephine saltò giù dalla barca ridendo. Happy la seguì e la prese per un braccio.
“Josie…Josie…io ti amo…”.
“Anch’io, Happy, veramente…”.
Si baciarono e poi, mano nella mano, raggiunsero le luci del lungo mare.


“Ehi Joey! Tutto, ok? Joey?”.
Josephine aprì gli occhi. Happy era davanti a lei: lo sguardo di prima era svanito.
“Tu mi chiamavi Josie…”.
“Josie?”.
“Avevamo deciso di farlo…”.
“Ed è successo?”.
“Non lo so…forse si…ne avevamo parlato la sera del murales…”.
Happy sospirò.
“Questa storia dei ricordi ma sta mettendo l’angoscia…non riuscire a ricordare il proprio passato non è affatto bello…”.
“Happy, forse aldilà del confine riusciremo a ricordare…”.
“E poi? E poi che facciamo? Torneremo a Short Island? Torneremo giù allo studio, torneremo a leggerci storie di cappa e di spada, e i nostri ricordi torneranno ad essere confusi, e allora a cosa sarà servito?”.
“Magari c’è un’altra vita…”.
“Un’altra vita? Non c’è niente aldilà del confine!”.
“Happy, non lo puoi sapere se prima non lo vedi con i tuoi occhi!”.
“Ti sembra che questa natura possa nascondere qualcosa di meglio di Short Island?”.
“Beh, andiamo a vedere, no?”.
Josephine sorrise ed abbracciò Happy.
“Josie. Ti chiamavo Josie? Mi piace Josie!”.


Salirono in macchina e la Talbot accarezzò lentamente sull’asfalto. La neve si faceva sempre più rara; gli alberi erano verdi e rigogliosi. Happy per la prima volta guardò fuori dal finestrino e si accorse che la strada costeggiava cespugli carichi di frutti dai colori più vivaci.
“È davvero l’Eden!”.
Improvvisamente qualcosa scosse la fronda di un albero: un piccolo passero dal becco arancione volò proprio davanti a loro. Josephine inchiodò e restò a bocca aperta.
“Oddio, che bello…un passero…”.
Si precipitarono fuori dalla Talbot per ammirare quello che a loro sembrava un prodigio della natura. Il passero scomparve nel bosco.
“È bellissimo, erano anni che non ne vedevo uno!” esclamò Happy.
“Che ti avevo detto?” urlò Josephine “gli animali non sono tutti morti!”.
“Chissà se ce ne sono degli altri, qui…”.
“Certo che ce ne sono degli altri! Gli animali si riproducono!” sentenziò lei.
“In che senso si riproducono?”.
“Lascia perdere, Happy”.
“Quanto mancherà al confine?”.
“Non saprei, sinceramente sto iniziando a perdere la cognizione del tempo…”.
“Più ci avviciniamo e più tutto diventa strano…diverso…”.
“Strano in che senso?”.
“Strano…magico…o forse è assolutamente normale…”.
“Strano, magico, normale? Cos’è? Moby Dick di prima?”.
Happy si girò verso di lei e scoppiò a ridere.
“Sai che c’è? Tu sei strana, non questo posto!”.

Josephine pensò che era molto tempo che non ridevano così di gusto. Poi si ricordò delle sue prime lacrime, del suo primo male d’amore, di Happy che l’aveva lasciata.



Josephine, come al solito, era andata in spiaggia verso le dieci di mattina ma di Happy non c’era nemmeno l’ombra. Aveva fatto il bagno. L’acqua era fredda quella mattina. Aveva mangiato un gelato, sfogliato una rivista. La sua migliore amica l’aveva raggiunta verso ora di pranzo. Uno sguardo e Josephine capì tutto: Happy la stava lasciando e l’ingrata incombenza era toccata alla persona che aveva di fronte e che si grattava le mani, imbarazzata. Sentì una punta di dolore crescere nella pancia. Pensò al rientro in città. Pensò alle giornate a scuola senza più lui. Pensò a quei cinque giorni che la separavano dalla partenza, a quanto sarebbe stato duro da sopportare di vedere il ragazzo di cui era innamorata e non sentirsi più sua. Pensò a cos’era cambiato dalla sera prim,a in cui Happy le aveva dichiarato il suo amore. Pensò perché. Pensò che forse faceva meglio a starsene zitta. E in uno sforzo estremo di dignità aveva sorriso all’amica ed era tornata a sfogliare la rivista, in cerca di chissà che cosa.


Josephine si ricordò di essere corsa dal padre. Si ricordò della sua disperazione, di tutto il male.



“Tu…tu mi hai lasciata…a quel tempo stavamo insieme e tu mi hai lasciata!”.
“Cosa?”.
“Stavamo insieme, Happy! E per qualche ragione tu mi hai lasciata! Ricordo il dolore, le mie lacrime, l’abbraccio di mio padre…tu mi hai lasciata, non ricordo perché! Perché? La sera prima mi hai dichiarato il tuo amore e poi mi hai lasciata! Perché?”.
Josephine sentì lo stesso dolore di un tempo crescerle nella pancia. Spinse violentemente Happy, gettandolo a terra.
“Sai che c’è, razza di stronzo? Che questo viaggio me lo continuo da sola! Non ce lo voglio uno come te accanto a me! Hai capito? Sei un ingrato! Vaffanculo!”.
Josphine estrasse dalla borsa la scatolina di seta giapponese e la scagliò contro Happy: gli orecchini finirono sull’asfalto umido. Poi saltò sulla Talbot e partì a tutta birra.
Happy restò lì, steso a terra, guardare l’auto, di quella che un tempo era stata la sua ragazza, sparire nel buio della notte. Si sentì improvvisamente solo, in mezzo a quella natura strana e inconsueta. E si sentì stupido.

“Ho lasciato Josie per qualcun’altra? Ma chi? Faccio a malapena a ricordare di essere stato con lei…”.
Nella mente di Happy prese forma una figura. Una figura femminile. Una ragazza bruna, con i capelli corti…una villa con piscina. Una piscina…vicino a quella piscina aveva lasciato Josephine per una ricca ragazza bruna. Ora ricordava le lacrime di lei, la sua disperazione, le sue mani che cercavano di trattenerlo, le sue braccia che lo soffocavano, e lui che voleva solo sparire… e poi. E poi si guardò l’anulare destro. E vide l’anello d’oro di Josphine, a forma di serpente: lei glielo aveva dato quel giorno in piscina, dopo aver capito che lui la stava lasciando.





Happy, Josephine e i suoi amici erano soliti incontrarsi in una piazzetta, davanti ad una serie di cabine telefoniche dove i turisti si accalcavano per chiamare i loro cari. Una calda sera di luglio avevano deciso di accendere un fuoco in riva al mare e disegnare un murales, dedica alla loro amicizia, su un molo, non poco lontano dalla caserma della polizia. Josephine aveva rubato della diavolina al padre; mentre i maschi del gruppo avevano acquistato delle bombolette spray, nel pomeriggio. Lei era bella, quella sera: indossava una gonna di seta blu, lunga fino ai piedi, con una fila di bottoni sul davanti, una camicia bianca annodata sopra l’ombelico, scarpe da ginnastica di tela, capelli biondi che sfioravano la pelle, appena abbronzata, delle spalle, ai lobi i pendenti a forma di fiore che lui le aveva regalato. Happy desiderava stare con lei tutta la sera e le propose di andare a sedersi sulle barche attraccate alla spiaggia.
“Così se tuo padre passa in bicicletta sul mulo non ti vede scarabocchiare stupide frasi su un muro….”.
Voleva fare l’amore con lei. Josephine era reticente.
“Aspetterò…aspetterò tutta la vita se è necessario…aspetterò te, Josie…”.
Lei sorrise saltando giù dalla barca. Lui le dichiarò il suo amore. Abbracciati raggiunsero il lungomare: lei aveva voglia di fare una passeggiata.
Il flusso di turisti sorridenti e felici gli andava incontro.
“Che avranno mai da ridere così tanto?” pensò Josephine.
Guardò Happy: le sembrava così bello, giovane, innamorato di lei. Troppo innamorato di lei.
“Che scrivono quelli sul murales?”.
“Still here! Ancora qui!”.
“Still here?”.
“Ancora qui, dopo tutti questi anni, siamo ancora qui. Come me e te tra anni, tra moltissimi anni”.
Josephine rimase in silenzio. Happy la prese sotto il proprio braccio.
“Josie, io per te ci sarò sempre…”.
Lei guardò altrove.
“Guarda lì! Andiamo a vedere che posto è! Ti vanno quattro salti?” esclamò lei e si diresse a passo spedito verso un edificio a forma di pentagono. Alla porta d’entrata era appeso un cartello fucsia che diceva: “Only Vip”.
“Vuoi veramente andare là dentro?” chiese Happy.
“Perché? Tu no? Sembra carino…”.
“Ma sai leggere? C’è scritto che praticamente ci possono solo entrare i Vip!”.
“Perché? Noi forse non lo siamo?” e scoppiò in una fragorosa risata.
Proseguirono la loro passeggiata sul lungo mare. La luna era tonda, gialla, e illuminava l’intera spiaggia di ponente.
“Ormai siamo quasi giunti alla fine” sospirò Joesphine.
“C’è un altro locale lì! Questo si che mi sembra carino!”.
Si fermarono di fronte ad una larga scala a chiocciola che conduceva ad una terrazza. Da qui proveniva una vecchia canzone: “Josephine, I send you all my love, Josephine, I send you all my love…”.
Happy canticchiò la strofa.
“Di chi è?”.
“Chris Rea, un cantante di qualche tempo fa’”.
“Che dici, entriamo?”.
Salirono le scale ridendo a crepapelle per chissà quale motivo, quando un buttafuori gli impedì di entrare.
“Guardi che i soldi ce li abbiamo!” disse Happy con superbia.
“Quanti anni avete?” sbraitò l’uomo.
“Io quindici e lei sedici”.
“Questo locale è per maggiorenni, andatevene via, mocciosi!”, l’uomo si stava facendo sempre più minaccioso.
Happy sembrava contrariato all’idea di cedere così, senza prima aver fatto a pugni.
“Dai, Happy, andiamo via! Stasera non è serata…”.

Scesero in spiaggia e si distesero sulle sdraio. Un gruppo di ragazzi stava cantando sigle di vecchi cartoni animati.
“Noi non staremo sempre insieme…” soffiò, mogia, Josephine.
“Che dici, Josie?”.
“Siamo giovani, Happy, troppo giovani…non possiamo prometterci amore eterno, adesso…”.
Lei si alzò in piedi. Lui la guardò da sotto in sù.
“Adesso vado. Ci vediamo domani mattina in spiaggia, come al solito” e scappò via.
Lui decise di raggiungere gli altri per vedere il murales: lì, al molo, incontrò una ricca ragazza bruna.




“Che cretino! Che stronzo!”.
Happy si sollevò da terra. Si tastò le natiche: erano ancora doloranti.
“Sono proprio un povero stronzo! Come ho potuto fare una cazzata simile?!?”.
Guardò davanti a sé: era in un posto sconosciuto, era buio, era freddo e lui aveva ancora male al fondoschiena.
“E va bene! Se deve essere così, così sia!”.
E prese a correre, correre, correre. Corse a perdifiato per almeno un quarto d’ora, quando vide i fari posteriori della Talbot.
“Josie! Josie! Josie! Josie!”.
Josephine era seduta su una staccionata e stringeva un gattino.
“Guardà Happy! Un gattino! Non è bello?”.
“È bell…è bell….simo…è bellissimo….”.
Happy si accorse che aveva pianto.
“Mi ha attraversato la strada improvvisamente: per poco non lo tiro sotto!”.
“Josie…Josie…scusa” ansimava “io…io ho avuto paura…e allora….”.
“Paura di cosa?”.
“Paura…la ragazza bruna, non volevo…ma ho avuto paura del futuro…di noi…di una storia troppo importante e noi eravamo giovani…”.
“Sai quando mi hai regalato gli orecchini? Per il mio sedicesimo compleanno, la sera prima del murales…”.
“Questi sono tuoi, allora. Sono un regalo” Happy le mise in mano la scatolina di stoffa giapponese.
“Che cosa hai ricordato?”.
“Un sacco di cose…io e te sulla barca, com’eri vestita, la passeggiata sul lungomare, la discoteca per soli vip, il piano bar, la canzone di Chris Rea, il buttafuori, e poi il tuo sguardo e quella frase, tu che vai via di corsa…quella frase mi ha messo paura. E così sono andato dagli altri e c’era lei! Non volevo, Josie! Te lo giuro, non volevo! Ma lì, in quel momento, con quella tipa mi sembrava la cosa migliore da fare…la nostra storia stava diventando grande, troppo per noi e allora…”.
“Facevo meglio a stare zitta, eh? Così non mi lasciavi…”.
“Josie…io ti amo ancora…”.
“Che cosa c’era scritto sul murales?”.
“Sill here, ancora qui”.
“Ancora qui, eh? Allora andiamo! Se no tra un po’ siamo vecchi, invece!”.
Josephine lasciò andare il gatto. Saltò in braccio ad Happy e lo baciò con foga.
“Comunque io…io…io veramente…” bisbigliò lui.
“Si, anch’io Happy, ho aspettato dieci anni per…insomma, hai capito, no?”.
Happy la accarezzò.
“Promettimi una cosa, però!” lei gli puntò il dito indice sul naso.
“Spara!”.
“Basta storie di cappa e di spada, ok? Ti fottono il cervello e poi diventi come Early il ciccione!”.
Happy sospirò.
“Ok, basta storie di cappa e di spada perché mi fottono il cervello e divento scemo come Early il ciccione! Oppure mi viene una erre come la sua?”.
Scoppiarono a ridere.


“Cazzo che freddo!”.
Josephine si rizzò a sedere e cercò i suoi vestiti.
“Ehi, Jo! Allora com’è stata la mia performance, eh?” domandò Happy ridendo.
“E che ne so! Non posso confrontarti con nessuno perché a parte te…sai com’è…”.
“Pensi che tutto questo sia destino?”.
“Credo di si…come il murales che dice still here, come la balena bianca, come tutto quello che è accaduto questa notte…”.
“Sigaretta?”.
Josephine lo squadrò con disapprovazione.
“Eh dai, Josie! È l’unico piacere che ci rimane! Magari aldilà del confine si può fumare senza che nessuna ti rompa le palle! T’immagini che goduria?”.

Josephine e Happy si sedettero sul cofano della Talbot.
“Allora siamo pronti per andare aldilà del confine?”.
Lei annuì.
“La strada si biforca, da che parte si va’?”.
“Lì c’è un cartello, vado a vedere” disse prontamente Happy dirigendosi verso un palo di legno con un insegna parzialmente arrugginita.
“Allora che c’è scritto?”.
Lui si avvicinò a Josephine.
“Long Island 1000 miglia”.
“Long Island 1000 miglia? E basta? Non c’è scritto altro? Che posto è Long Island?”.
“E che ne so! Magari è meglio di Short Island…”.
“Che si fa, Happy? Da che parte andiamo?”.
“Long Island mi ispira”.
“Anche a me, almeno non è short…ci sarà un sacco di gente fica!”.
“Allora è deciso? Long Island?”.
“E Long Island sia!”.
Saltarono giù dal cofano.
“E il gatto dov’è?”.
Josephine si guardò intorno e vide qualcosa di bianco e peloso appallottolato sul tetto della macchina.
“Guarda dov’è!” disse sorridendo e lo prese in braccio.
“Come lo chiami?”.
“Pallottola!”.
“Pallottola? Che cazzo di nome è?”.
“Pallottola perché si appallottola”.
“È un nome idiota!”.
“Smettila Happy! È un nome originale, invece!”.
“Diventerà un gatto idiota!”.
“Tu sei un idiota!”.
“Ehi, Josie, secondo te riusciremo a ricordare da dove veniamo?”.
“Forse…Happy, forse si, mi piace pensare che sarà così….”.
Le voci di Josephine e Happy divennero impercettibili; la Talbot s’immerse, lenta, nel buio di quella strada.